14 dicembre 2013

Sui forconi.

Rammento e rimpiango i tempi in cui i forconi venivano adoprati per spargere del buon letame nelle nostre campagne.

28 novembre 2013

Scuola di logica - Locuzioni ricorrenti nel linguaggio logico

San Tommaso tra Aristotele e Platone

Ab imis. Dalle profondità, dai fondamenti. Applicato ad un discorso che parte dalle basi di un ragionamento o dalle premesse che fondano un processo logico.
A priori. Da ciò che è prima. Affermazione che scaturisce immediatamente dall’analisi stessa del concetto. Tale espressione passata in seguito ad indicare un giudizio precostituito (il pregiudizio, appunto).
A posteriori. Da ciò che è dopo. Questa espressione designa il processo conoscitivo che conclude partendo dall’analisi dei fatti. Nel linguaggio comune designa la facile e scontata affermazione di quanto è stato verificato in precedenza.
Contra (post) factum non valet argumentum. Contro ( dopo ) il fatto l’argomento non vale nulla. Non si può mettere in discussione l’esistenza di un fatto quando è già avvenuto.
A fortiori. Tanto più. Sta a indicare la maggiore valenza di una asserzione rispetto ad un’altra precedentemente ammessa.
Ad hominem. Adatto all’uomo. Riferito ad un’argomentazione che si dimostra efficace proprio per la persona che viene attaccata su quanto ha dichiarato in precedenza. Differente come significato dalla locuzione ad personam, alla persona, impiegata per lo più ad indicare una dedica personale di un libro o di un’opera artistica.


Ci sono alcune parole impiegate nella dialettica della filosofia classica. Appartengono al repertorio della schermaglia del dibattito di due avversari. E’ opportuno rilevare che un utilizzo esagerato di questi strumenti portano ad un linguaggio troppo accademico e in definitiva pedante. Ma l’uso moderato di queste parole può risultare forbito ed elegante:


Adfirmo. Lo affermo.
Atqui. Ma anche. Unione delle congiunzioni: AT (ma) e QUE (anche). Nesso tra le premesse.
Concedo. Lo ammetto.
Distinguo. Lo affermo solo in parte.
Ergo. Dunque. Termine tratto dalla logica scolastica. Ricorre soprattutto nel linguaggio forense a sottolineare la forza con cui s’impone la conclusione di un ragionamento.
Nego. Lo nego.
Tranxeat. Passi pure. Te lo concedo per quanto non lo condivida.
Ex abrupto. All’improvviso. Argomentazione fulminea che scaturisce immediatamente dalla constatazione di un dato.
De gustibus non est disputandum. Sui gusti non c’è da discutere. Sarebbe scorretto e, più che altro, una fatica inutile.

Luciano Marrucci

07 novembre 2013

Napoleone a San Miniato - Seconda parte


Solo nella sua stanza, Buonaparte gettò la spada e la giubba in un angolo e poi scrisse un biglietto a Giuseppina, venti righe poco leggibili, dove gridò il suo temperamento violento e controllato. Poi dopo aver piegato il foglio scacciò bruscamente l'immagine di questa donna, come si chiude un cassetto. Poi dispiegò una pianta di Mantova e scelse un punto sul quale egli avrebbe piazzato l'artiglieria. Era ancora intento nei suoi calcoli, quando sentì bussare alla porta. Credette che fosse Berthier.
Era il canonico che veniva a chiedergli un momento di ascolto. Portava sotto il braccio due o tre fascicoli ricoperti di pergamena. Il generale guardò quelle carte con una certa derisione. Era sicuro che fosse la genealogia di Buonaparte e non voleva che sorgesse una inesauribile conversazione. Tuttavia non lasciò apparire alcuna impazienza. Lui non andava in collera se non quando lo voleva espressamente. Ora non aveva alcuna voglia di dispiacere al suo buon parente; al contrario, desiderava essere gentile con lui. E, per di più, non era contrario a conoscere tutta la nobiltà della sua razza. Mentre i suoi ufficiali giacobini non erano più presenti per prendersene gioco o per alimentare dei sospetti. Pregò il canonico di sedersi. Quello prese una sedia, pose i suoi fascicoli sulla tavola e disse:
– Caro nipote, io avevo cominciato durante la cena a parlarvi dei Buonaparte di Firenze; ma compresi per ciò che mi avete fatto capire, che quello non era il luogo per parlare di questa cosa. Io mi sono taciuto, riservando per questo momento qui ciò che era essenziale. Io vi prego, caro parente, di ascoltarmi con attenzione. La branca toscana della nostra famiglia produsse degli uomini insigni, tra i quali conviene nominare Jacopo Buonaparte, il quale è stato testimone del sacco di Roma nel 1527 e fece una relazione di questo evento. E Niccolò, autore di una commedia intitolata 'La vedova' che qualcuno vanta come opera di un altro Terenzio. Tuttavia non è di questi lustri antenati che voglio parlarti, sebbene di un terzo che li eclissa in gloria come il sole sbiadisce le stelle. Dovete sapere che la nostra famiglia annovera un beato tra i suoi membri, Fra Bonaventura, discepolo riformato di San Francesco, che nell'anno 1593 morì in odore di santità. Nel pronunciare questo nome il vegliardo s'inchinò. Poi riprese con un calore che non ci si sarebbe atteso né dalla sua età e né da i suoi modi indulgenti.
Fra Bonaventura! Ah! Caro parente, è a lui e a questo buon padre che voi dovete il successo delle vostre armi. Egli era vicino a voi, non ne dovete dubitare, quando folgoraste, come avete detto a cena, i nemici della vostra parte sui gradini di San Rocco. Questo cappuccino vi ha condotto in mezzo alle battaglie, state sicuro che senza di lui voi non avreste avuto successo né a Montenotte, né a Millesimo e né a Lodi. I passi della sua protezione son troppo eclatanti per non essere visti ed io riconosco nei vostri successi un miracolo del buon frate Bonaventura ma ciò che qui importa sapere, caro parente, è che quel sant'uomo aveva le sue intenzioni quando dandovi un vantaggio sullo stesso Beulieu vi ha menato di vittoria in vittoria fino a questa antica dimora dove voi riposate, questa notte, sotto la benedizione di un vecchio. Io sono precisamente qui per rivelarvi le sue intenzioni. Fra Bonaventura voleva che voi foste istruito sui suoi meriti, che voi conosceste i suoi digiuni, le sue austerità e i silenzi di una intera annata ai quali egli si condannò. Egli voleva farvi toccare il suo giudizio e la sua corda, e i suoi ginocchi così incalliti ai gradini dell'altare, per cui camminava contorto come una Z. Ed è per questa finalità che egli vi ha portato in Italia dove voi avete l'occasione di rendergli servizio per servizio.
Perché, lo dovete sapere, caro parente, se questo cappuccino vi ha molto aiutato, dalla vostra parte voi potete essergli veramente utile.
A queste parole il canonico pose le mani su i grossi fascicoli che giacevano sulla tavola e respirò lungamente.
Buonaparte attese senza dire niente il seguito di questo discorso che lo interessava. Non c'era uomo più distraibile. Dopo aver respirato, il vegliardo riprese la parola:
– Sì, caro parente, voi potete essere molto utile al buon fra Bonaventura ed in questo caso egli ha bisogno di voi. Beatificato da più di lunghi anni, egli attende ancora di essere inserito nel calendario. Languisce, il buon fra Bonaventura.
– E che posso fare io, povero canonico di San Miniato per procurargli l'onore che gli è dovuto? La sua inscrizione richiede delle spese che oltrepassano le mie possibilità e le risorse del Vescovo! Povero canonico! Povero Vescovo! Povero Duca di Toscana! Povera Italia! Voi, caro parente, chiedete al Papa che riconosca fra Bonaventura. Egli l'accorderà. Sua Santità, per riguardo verso di voi, non si rifiuterà di mettere un santo in più nel calendario. Un grande onore convergerà su di voi e sulla vostra famiglia, e la protezione del buon cappuccino non vi verrà mai a mancare! Ignorate la gioia di avere un santo in questa famiglia?
E il canonico, mostrando i fascicoli delle pergamene, pregò insistentemente il Generale di metterli nella sua valigia. Questi contenevano la memoria sulla canonizzazione del fra Bonaventura con le pezze d'appoggio.
– Promettetemi, aggiunse, che vi occuperete di questa cosa, la più grande che possa interessarci.
Buonaparte contenne la sua ilarità.
– Io sono piazzato male, disse, per intraprendere un processo di canonizzazione! Voi ignorate che la Repubblica francese sta richiedendo alla corte di Roma la riparazione dovuta per la morte dell'ambasciatore Bassville, vilmente assassinato.
Il canonico si ritrasse.
– Corpo di Bacco! La curia di Roma farà le sue scuse, caro parente, essa verrà incontro a tutte le riparazioni dovute ed il nostro cappuccino sarà messo in calendario.
– Le negoziazioni, non vengono svolte in tempi rapidi, replicò il Generale repubblicano. Bisogna ancora che la curia romana riconosca la costituzione civile del clero francese e che rompa con le sue mani l'Inquisizione, che affligge l'umanità ed usurpa il diritto degli Stati.
Il vegliardo sorrise.
– Mio caro figliolo Napoleone, il papa sa che bisogna dare per ricevere. Cede a proposito, egli vi attende. E' durevole e pacifico.
Buonaparte rimase a pensare, come se delle nuove idee venissero a fissarsi nella sua possente mente. Poi tutto d'un colpo:
– Voi non conoscete lo spirito del secolo, c'è una forte irreligiosità in Francia. L'empietà vi ha preso campo. Voi ignorate il progresso delle idee di Montesquie, di Raynal e di Rousseau. Il culto è abolito, si è perduto il rispetto, voi ve ne siete accorto dagli interventi scandalosi fatti da i miei ufficiali alla vostra tavola.
Il buon canonico scosse la testa.
– Oh! Questi amabili giovani sono superficiali, dissipati, storditi! Questo per loro passerà, tra dieci anni essi correranno meno dietro alle ragazze ed andranno a messa. Il carnevale dura pochi giorni ed anche quello della vostra Rivoluzione francese non durerà per lungo tempo. La Chiesa è eterna.
Buonaparte confessò che lui stesso era troppo poco religioso per intromettersi in un affare del tutto ecclesiastico.
Allora il canonico lo guardò negli occhi e gli disse:
– Mio ragazzo, io conosco gli uomini. Io vi conosco, voi non siete un filosofo, occupatevi del beato padre Buonaventura. Egli vi renderà il bene che avrete fatto a lui. Quanto a me, io son troppo vecchio per vedere il successo di questa grande impresa, io presto morirò lasciandola a voi nelle vostre mani, io morirò tranquillo. E soprattutto non dimenticate mai, mio parente, che tutto il potere viene da Dio attraverso la mediazione dei suoi ministri. Si alzò in piedi, alzò le braccia per benedire il suo giovane nipote e se ne andò.
Restato solo, Buonaparte sfogliò la voluminosa memoria alla luce torbida della candela; pensò alla potenza della Chiesa e disse tra se che l'istituzione del papato era più durevole della Costituzione dell'anno III. Qualcuno bussò alla porta, era Berthier che veniva ad avvertire il Generale che tutto era pronto per la partenza.




Il canonico Filippo Buonaparte, morì il 24 dicembre 1799 all'età di settantasette anni. Fu sepolto nella chiesa di santa Lucia, presso San Miniato di cui godeva il giuspatronato. La sua tomba, al centro della chiesa, fu sconquassata dalle macerie in seguito al crollo del tetto avvenuto nel 1944 a causa di un bombardamento americano durante la battaglia di Calenzano.

29 ottobre 2013

Napoleone a San Miniato - Prima parte

Anatole France (1844 - 1924)
Autore: Anatole France
Traduzione di Luciano Marrucci da “Le puits de Sainte Claire”, 1895, edizione resa disponibile dalla Biblioteca Nazionale Francese.









Napoleone, dopo la sua spedizione a Livorno, si portò a Firenze, dormì a San-Miniato
presso un vecchio prete dei Buonaparte...
(memoriale di Sant'Elena lasciato dal Conte de Lascases, ristampa del 1822-1824. Pag. 149)
“Fui verso sera a San Miniato. Lì ci avevo un vecchio canonico mio parente...”
(mémoires du docteur F. Antonmarchi, sur les derniers moments de Napoléon, 1825. Pag. 135)

Dopo aver occupato Livorno e chiuso il porto alla flotta inglese, il generale Buonaparte andò a trovare a Firenze il granduca di Toscana Ferdinando, il solo fra tutti i principi d'Europa, che aveva tenuto fede ai suoi impegni verso la Repubblica.
In testimonianza di stima e di confidenza, egli vi andò senza scorta con il suo Stato-Maggiore. Gli furono mostrate le insegne dei Buonaparte scolpite sulla porta di un vecchio palazzo. Egli sapeva che un ramo della sua famiglia un tempo si era esteso a Firenze e che ne restava ancora un ultimo rampollo. C'era a San Miniato un canonico di ottant'anni. Nonostante gli impegni di cui era gravato gli premeva di andarlo a visitare. I sentimenti naturali erano molto forti in Napoleone Buonaparte. Nella vigilia della sua partenza, alla sera, egli si recò con alcuni dei suoi ufficiali a San Miniato, di cui la collina, coronata di muraglie e di torri si eleva ad una mezza lega a sud di Firenze.
Il vecchio canonico Buonaparte accolse con nobile amenità il suo giovane nipote e i francesi con cui era accompagnato. C'erano Berthier, Junot, il Commissario in capo Chauvet e il luogotenente Thézard. Offrì loro un pranzo all'italiana nel quale non mancarono né le gru di Peretola, né il maialino di latte profumato di aromi, né i migliori vini della Toscana, di Napoli e della Sicilia. Lui stesso brindò alle loro armi Repubblicane come Bruto, essi brindarono alla patria ed alla libertà. L'ospite si accordò con loro. Poi volgendosi verso il generale che era piazzato alla sua destra:
– Mio nipote, gli disse, non siete curioso di riguardare l'albero genealogico dipinto sul muro di questa sala? Vedreste senza dispiacere che noi discendiamo dai Cadolingi lombardi che dal secolo X al secolo XII si onorarono per la loro fedeltà agli imperatori alemanni. Da essi discesero i Buonaparte di Treviso e i Buonaparte di Firenze. Quest'ultimi sono molto più illustri.

Gli ufficiali cominciarono a borbottare e a ridere. Chauvet, parlando sottovoce con Junot, non era affatto sicuro che Napoleone gradisse di avere nella storia della sua famiglia dei servi dell'Aquila Bicipite. E il luogotenente Thézard era pronto a giurare che il generale doveva la sua luce a dei buoni sanculotti. Intanto, il canonico Buonaparte vantava con insistenza l'eccellenza della sua casa.
– Caro nipote, continuò il vegliardo, i nostri antenati di Firenze meritavano davvero il loro nome. Essi furono del “bon partito” e difesero sempre la Chiesa.
A queste parole che il buon uomo aveva pronunciato con una voce alta e chiara, il generale fino a quel momento distratto e ascoltando appena, alzò la testa pallida e magra tagliata sull'antico. E col suo sguardo scintillante bloccò la parola sulle labbra del vegliardo.
– Caro zio, gli disse, lasciamo queste noioserie e non sottraiamo ai topi della vostra soffitta delle pergamene ammuffite.
Aggiunse con voce metallica:
La mia sola nobiltà sta nelle mie azioni. Essa data dal tredici mese vendemmiale dell'anno IV quando fulminai sui gradini di San Rocco le guarnigioni realiste. Beviamo alla Repubblica! E' la freccia d'Evandro che non ricade a terra e diventa una stella. Gli ufficiali risposero con una entusiastica acclamazione.
Lo stesso Berthier si sentì in quel momento repubblicano e patriota. Junot era sicuro che Napoleone non avesse bisogno di antenati e gli basta sapere di essere stato fatto caporale dai suoi soldati a Lodi. Si bevve del vino che aveva il gusto secco della pietra focaia e l'odore della polvere. Ne bevvero abbondantemente. Il
luogotenente Thèzard era ormai fuori dall'idea di nascondere il suo pensiero. Fiero delle ferite e dei baci di cui era stato coperto durante questa eroica e gioiosa campagna, annunciò senza giri di parole al buon canonico che, sotto la guida di Buonaparte i francesi faranno il giro del mondo, rovesceranno dappertutto troni e altari, facendo fare dei figli alle fanciulle e trafiggendo i fanatici.
Il vecchio prete, sempre sorridendo, rispose che lui abbandonava volentieri alla loro bella furia, non certo le giovani fanciulle che raccomandava di trattare con riguardo, ma quei fanatici grandi nemici della Santa Chiesa. Junot gli assicurò di trattare favorevolmente le religiose che aveva avuto a suo servizio, trovando in loro un cuore tenero e una pelle chiara. […] Non ci sono, disse Berthier, in Italia delle femmine di buona società a cui possiate offrire i vostri servizi nelle feste sotto i mantelli veneziani, così favorevoli agli intrighi? Non è vero che Pietra Grua Mariani, madame Lamberte, madame Monti, madame Gherardi da Brescia sono belle e galanti?
Nel momento in cui nominava queste dame italiane, il suo pensiero andava alla principessa Visconti che, non avendo potuto sedurre Buonaparte, si era concessa al suo capo di stato maggiore e l'amava con molle fuochezza, con una studiata sensualità di cui il debole Berthier restava turbato a vita.
– Ed io, disse il luogotenente Thézard, non dimenticherò mai una piccola venditrice di cocomeri che sui gradini del Duomo...
Il generale, impazientito, si alzò. Restavano appena tre ore prima della partenza. Dovevano partire al primo mattino del giorno dopo.
– Caro parente, non vi preoccupate per il nostro dormire, disse al canonico. Noi siamo dei soldati. Ci basta un fastello di paglia!
Ma il generoso ospite aveva fatto sistemare dei letti. La sua casa nuda e senza ornamenti, era vasta. Egli condusse i francesi ognuno nella sua stanza che era loro destinata e dette loro una buonanotte.

continua...

10 ottobre 2013

Addio Macallè

Negli ultimi e oscuri annali di Faggeto, dove non succede niente di niente che possa interessare l’opinione pubblica sempre assetata di notizie importanti, c’è posto per la storia di due capre che rispondevano (oh, come rispondevano!) ai nomi di Macallè e Zucchina.
Ora sì che so come sono le capre! Dispettose e ciccione, affezionate e giocherellone, furbe ed intraprendenti, contemplatrici appassionate del firmamento per quell’attitudine nomade che rende sempre disponibili a seguire l’uomo in un lungo cammino.
Con loro ho incominciato subito la lunga guerra dei recinti. Ma ho dovuto dichiarare la resa. Hanno sfondato le reti deboli; quelle robuste , le hanno scavalcate, hanno rotto steccati e saltato cancelli.
Dopo aver fatto dei guai negli orti dei vicini, mi si accostavano per assicurarsi che quello che era successo era successo, ma che loro mi volevano bene lo stesso… Mi è capitato più volte che mentre sedevo sugli scalini della loggia e pensavo con una certa amarezza ai miei insuccessi pastorali (delle anime, intendo) Macallè veniva a morsicarmi i capelli (questo fanno questi animali) come per dirmi: “Non ci pensare! Ci siamo noi a starti vicine”. Sono convinto che la Bontà di Dio ci può raggiungere anche così: attraverso il complimento di un animale.
Bisognerà registrare in questi animali che una volta, mentre stavo spiegando il Vangelo del Buon Pastore, si è sentito picchiare alla bussola della Chiesa e tutti hanno capito che erano loro; mi sono quasi commosso e ho detto: “Avete sentito? E’ proprio vero che questi animali riconoscono ‘la voce del pastore’!”.
La storia arrivò ad una svolta importante quando Macallè partorì tre capretti e fu imitata alla distanza di ventiquattrore da Zucchina che ne mise alla luce altri due. Nasceva un problema: tre più due, cinque e due che portavo: sette! Troppa grazia Sant’Antonio! All’improvviso mi ritrovavo con una piccola mandria di capre. Chi me le bada? Mandare al macello quei graziosissimi capretti, non me la sentivo.
Passa del tempo e si fa avanti un agricoltore di Vinci, il padre di Daniele, un bambino che tanto insisteva per avere, nel suo recinto, la presenza della capra e dei suoi tre caprettini.
Macallè è una magnifica capra che quando si rizzava sulle zampe era più alta di me, giocava con me fingendo di caricarmi, mi seguiva nelle mie passeggiate notturne… Ma bisognava dargliela. Pensavo ai lamenti di quelli che piantavano l’insalata, il radicchio e altro. Qui si trattava di salvare capra e cavoli. E cedetti.
Venne il momento di caricarla sul furgone e ci dovevo essere io per forza, sennò non saliva. Vidi nei suoi occhi una luce di sgomento e di terrore; pareva che dicesse “Se mi tradisci anche tu, allora di chi mi posso fidare da ora in avanti?”.
Addio Macallè! Sono sicuro che ti troverai molto bene con Daniele, dato che ami tanto i bambini. Tu lasci Faggeto per andare a Vinci: così vai dentro quel paesaggio che fu tanto caro a Leonardo, che pensò ad animali come te quando cercò personaggi per il paesaggio di un presepe che non cessò mai di dipingere.

07 ottobre 2013

Gli annali di Faggeto

Per non essere da meno degli altri parroci, il parroco di Faggeto aveva costruito, ai tempi di Pio XII, una sala parrocchiale. Questa si ergeva accanto alla Chiesa in contrapposizione al circolino che sorge a mezzo poggio sul cui colore politico io non mi esprimo… ma era il colore che possono avere i papaveri nostrani in pieno giugno. Via i barattoli delle caramelle, la caffettiera e due dozzine di bicchieri, la saletta senza condoni e perdoni fiscali, è diventata l’abitazione di una famiglia del salernitano che è venuta a starci prima ancora che da quelle parti ci picchiasse il terremoto . E così siamo senza.
In compenso, dall’altra parte della canonica, c’è rimasta una bella capanna. Ora abbiamo una stalla parrocchiale! Non mi risulta che gli ultimi pontefici abbiano fatto cenno ad una cosa del genere. Non era prevista. Ma qui siamo rimasti al tempo delle antiche abbazie e in qualche modo, se noti abbiamo precorso come tanti altri il Concilio Vaticano II, facciamo di tutto per percorrere quello che deve ancora venire. Ci sarà un nuovo Concilio, no?

Parrocchie esemplari

In questa stalla hanno dimora le mie capre parrocchiali. E’ qui che tengo le riunioni più riuscite… Prima che gli annali di Faggeto abbiano conclusione e tutte le carte, legate debitamente con nastro di canapa, vadano a finire nell’archivio di Lucca, bisognerà scrivere dell’alto senso di parrocchialità che esse hanno dimostrato durante questi anni in questo borgo, ricordato dalla storia ma dimenticato dalla cronaca.
Le capre mi salutano quando arrivo e quando parto. Hanno rispetto. Loro non si fermano, come altre parrocchiane all’uscita della Messa per mormorare sul prete… Hanno la loro religiosità. A loro modo, s’intende. Io le ho viste inchinarsi e poggiare la testa verso il portone come volessero entrare. E quando suona la campana, come tendono le orecchie e i loro occhi si fanno riflessivi!
In quel momento, per me, è come se pregassero.
Quanto ai capretti, attirano i bambini più di me. Con una parola difficile, si direbbe che posseggano il carisma di garbare ai ragazzi… Scherzano, saltano e fanno le capriole come loro; ecco perché. Ed io, da un pezzo ormai, le capriole non le faccio più…
D’accordo, sono caparbie, dispettose e fanno diversi danni… ma chi è senza difetto tiri la prima sassata.

Conversazione con le capre

L’ultima adunanza vicariale mi aveva amareggiato un po’ per via delle nuove norme che prevedono la soppressione di fatto delle piccole parrocchie. Allora toccherebbe anche a Faggeto. Una cosa che riguarda anche loro. Come mi sono seduto mi sono venute tutte intorno per farmi sentire l’umido tepore del loro fiato. Mi è proprio sembrato che volessero ascoltarmi. “Dunque questa cosa riguarda anche voi. Pare che da Roma hanno mandato a dire che da ora in avanti le parrocchie piccine come Faggeto non hanno più ragione di esistere. Dicono che le parrocchie con meno di cinquecento anime devono andare a sparire. E tu, Inochi, è inutile che tu rizzi gli orecchi… Ho detto anime, non animali! E voi avete tutto, ma l’anima no: su questo non ci piove.
Una parrocchia dovrebbe essere così consistente da avere un consiglio pastorale. Che cosa è un consiglio pastorale? Ma è semplice: lo dice la parola Consiglio. Vuol dire che la gente si riunisce per consigliare. “Sor proposto, faccia questo!”, “Sor proposto faccia così o cosà”. Consigli tanti ma aiuti pochi… Poi ci vorrebbe anche un consiglio economico. E anche qui voi non ci potete entrare di sicuro: non sapete nemmeno quanto costa l’orzo e l’avena… Passa in quel momento il mio fittavolo. “Prete”, mi fa “parli da te solo?”, “Non parlo da me solo, parlo con le capre!”.

Riprendendo il discorso

“E non la sapete tutta! Ci vogliono levare anche la terra. Pigliano tutto loro, a te ti danno un tanto, punto e basta. Quanto hanno fatto gli antichi per fondare una comunità qui a Faggeto, ed ora da un momento all’altro, via tutto. Qui finisce una storia, ma cosa incomincia? Ci capite nulla voi? Neanche io!
Se ci levano la terra, dove vi porto la sera quando mi seguite nelle mie passeggiate notturne? Qui vorrebbero che si smonticasse… ma per Santa Filumena, protettrice di Faggeto, se mi chiedono di firmare qualcosa, io non firmo. Però quando scrivono da Roma, ve lo dico io, suona a morto”.
A questo punto un capretto mi ha messo la zampa sulla spalla e ha mandato verso il mio orecchio un murmure sonoro e aspirato. Un po’ in italiano, un po’ in arabo, mi ha detto: “Non firmare! Non firmare!”.
Nel silenzio, la piccola mandria stava raccolta con gli sguardi rivolti in terra; poi Zucchina, l’anziana del gruppo, ha roteato la testa in alto un paio di volte ed è tornata a fissarmi dolcissimamente come per dire: “Qualche Santo ci aiuterà!”.

continua...

04 ottobre 2013

I capretti di Faggeto

Da diverso tempo la gente, interessata alle vicende di Faggeto, continuava a domandarsi se c’era qualche novità da queste parti e mi chiedeva di tenerla al corrente sulla faccenda della capre.
La novità c’è, e riguarda proprio le capre. Ne parlo anche perché ad una domanda che si poneva così: “Volete che vi parli di Loreto o di Faggeto?” hanno risposto: “Per carità, basta con Loreto! Parlaci di Faggeto!”.
Io non avrei mai immaginato che gli oscuri ed umili annali di questo vecchio borgo, noto, al più, ai vescovi pellegrini che verso il mille, passando da queste parti, si fermavano qui per alloggiare una o due notti in un monastero (che ora non esiste nemmeno) interessassero più di importantissimi convegni dove la Chiesa riscopre un nuovo volto.

Cinque capretti

Dunque, notizie fresche: la capre hanno figliato! Venerdì 14 febbraio, festa di San Valentino, Zucchina, la madre, e Inochi, la figlia, hanno dato alla luce (era appunto una fredda ma luminosa giornata di Febbraio) cinque capretti. Zucchina, tre; Inochi, due. Una memorabile giornata per Zucchina, non tanto perché ha battuto la figlia per tre a due, quanto perché in uno stesso giorno è diventata madre e nonna! Dei capretti è inutile parlarne; bisogna vederli. Una poesia in cinque strofe.

Preoccupazioni pastorali

L’ultimo nato di Zucchina si presentava già minutino e sembrava aver iniziato un non richiesto digiuno quaresimale. Mentre gli altri due avevano chiaramente dimostrato un gagliardo appetito e si erano spartiti concordemente le due uniche mammelle della madre, lui assumeva un atteggiamento metafisicamente assorto, disinteressato al latte, come se avesse stabilito di campare d’aria.
Passa un giorno così; allora è meglio telefonare al veterinario di Castelfranco.
- Sor Dottore, un capretto non ne vuol sapere di mangiare!
- Questo a volte succede perché gli intestini del capretto sono pieni di cibo materno, già quando vengono alla luce. A volte, magari quando fa freddo, la roba che ha dentro gli rimane indigesta e allora rifiuta il latte.
- Non sapevo che nascessero con l’indigestione! Ma, allora, sor dottore, c’è rimedio?
- Ascolti: lei faccia così: gli fa ingoiare un po’ di magnesia ‘Sanpellegrino’; è per rinfrescarlo. Poi gli deve dare un pochino di caffè, senza zucchero, ma che sia buono!
- Il caffè? O questa?
- E’ per tenerlo vispo e vivace! Bisogna che sia sveglio il capretto e si muova… Ha capito? Caffè bono e senza zucchero!

Una buona reclame

Vo in farmacia e mi danno una scatolina con l’immagine di un pellegrino. Apro a forza la bocca del cucciolo e per amore gli faccio ingoiare la purghetta. Poi metto al fuoco la moka. Arrivato alla stalla con la tazzina, succede una cosa che non avrei mai immaginato: Zucchina, che si era avvicinata con finta indifferenza alla tazza, o non si beve tutto il caffè e si mette a leccare anche il fondo?!?
Riporto ancora del caffè tiepidino… Il caprettino lo butta giù.
Passano poche ore e il capretto non si riconosce più, scatta agile verso il seno della madre e si fa strada tra i fratelli che ora si accorgono per la prima volta di essere in tre. Ho capito quello che è successo: “E più lo butto giù e più mi tira su”.
Non per fare reclame, ma per puro amore della verità; devo dire che il caffè usato era Lavazza “marca oro”!

Un argomento in più

Ora in questa capanna nobilitata dalla cucciolata di animali è come entrare nel mondo di Quark. E’ uno spettacolo gratuito, istruttivo e soprattutto divertente; ormai conoscono l’uomo, ci familiarizzano senza perdere la loro silvana spontaneità.
Uno di quei giorni è venuto a trovarmi un amico che qualche tempo fa si professava non credente. L’ho invitato ad entrare nella stalla. “Voglio mostrarti una prova dell’esistenza di Dio”. E’ entrato. Gli animali non erano ancora usciti dal recinto. Un capretto stava addirittura in ginocchio per succhiare il latte della madre; lo sguardo della capra pacato e assorto che hanno tutte le madri che allattano. Gli altri quattro caracollavano in un carosello continuo attorno all’altra femmina che sembrava dirigere il gioco. Quattro cuccioli che saltellavano con biblica esultanza. Una sarabanda! “Questa è una prova dell’esistenza di Dio!”. Il mio ospite non ha detto niente, ma gli è sfuggito un sorriso d’assenso, come dicesse: “Eppure tu hai ragione!”.

02 ottobre 2013

Presepe con le capre

“Presso i tuoi altari, Signore…”

Queste due capre non vivono sempre in recinto. Anche se, scorrazzano qua e là, combinano un mucchio di guai, bisogna aprire il cancello, perché non ha senso pigliare gli animali e non chiamarli a quella libertà che noi stessi pretendiamo per noi.
Hanno fatto amicizia con i ragazzi: si potrebbe dire che fanno parte del gruppo, ormai. E’ accaduto più volte che nell’ora del catechismo sono riuscite ad aprire la porta della bussola. Vogliono sentire, vogliono guardare. Io dico ad un ragazzo di chiudere la porta, ma senza impaurirle: “Nella mia Cura non ho due parrocchiane devote ed assidue come queste!”. Ciò che sorprende è che hanno scelto un posto dal quale è difficile staccarle: è l’atrio coperto che induce alla cappella laterale. A fianco della porta, o sotto il presepe fatto di embrici. A loro modo montano la guardia a Gesù.
Per forza ho pensato alle parole del salmo: “Anche il passero trova la casa, la rondine il nido dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari, Signore”.

Il presepe è una stalla?

Distaccarle di lì proprio la sera di Natale? Questo per me era il problema. Lo esposi ai ragazzi; tutti in maniera decisa e imperativa dissero che in quella notte Zucchina e Macallè dovevano essere lasciate dove volevano stare. “E pensare, aggiunsi io, che San Francesco aveva avuto il coraggio di portare addirittura dentro la Chiesa di Greccio un bue ed un asino: aveva il coraggio di fare un presepe che non era mai stato fatto prima di allora; e d’altra parte un presepe così non è mai stato fatto neppure dopo di allora”.
Che abbiamo fatto noi? Abbiamo sparso della paglia nell’atrio, sistemato una grossa cesta di salcio riempita di fieno. In quella Notte Santa, Macallè in piedi, ferma come un personaggio di gesso, Zucchina, graziosamente prona presso la cesta, non si sono mosse di lì. La gente, attirata dal lucore abbagliante della paglia illuminata da un faretto, prima di entrare in chiesa saliva tre o quattro gradini per portarsi sotto gli archetti dell’atrio. C’era chi si avvicinava alla cesta come per vedere se, caso mai, ci fosse qualcuno.

30 settembre 2013

Le capre di Moriolo

Lo dico anche se qualcuno sorriderà con (sciocca) commiserazione: ho messo due capre. In un clima di aggiornamenti biblici e liturgici, di conferenze teologiche, di convegni sulla nuova strategia pastorale ho messo due capre. Mi rimane difficile spiegare il significato della sensazione, che talvolta provo davvero, di aver compiuto da solo un cammino di qualche migliaio di anni indietro solo per il fatto di essere diventato pastore (con la minuscola, s’intende) di due capre.
Avrei una lunga storia da raccontare, una storia i cui particolari più trascurabili sono anche i più divertenti.
Mi vedo proprio costretto a fermarmi all’essenziale. La storia è cominciata così. Una sera dico a mio padre: "Perché non mettiamo due capre? Il posto c’è; noi vogliamo bene agli animali; si fa a meno del latte in cartocci che bisogna scendere a comprare in bottega; se poi una di queste ci regala due capretti, a Natale si mangia capretto arrosto a volontà. Ce n’è per noi e per gli invitati". Con mia sorpresa, trovo mio padre d’accordo con me: "E’ vero; per lo più le capre fanno due capretti alla volta. Erba e frasca si trovano a volontà". Per non aver modo di ritornare sulla decisione, si stabilisce subito di andare da un capraio rinomato nella nostra zona.


La scelta

Entrai nella grande stalla al rientro degli animali. Ero al centro, quando avvenne quello che interpretai come un segno premonitore: una bella capra, senza corna, dal mantello avana con qualche riflesso d’argento (una bella pelliccia, non c’è che dire) mi si avvicinò dolcemente e cominciò a morsicare l’orlo del portafoglio che sporgeva dalla mia tasca. Non c’era una maniera più convincente per attirare la mia attenzione. Il pastore capì più del dovuto e disse subito: “Codesta è incinta davvero. Due capretti. Uno lo allevate, uno lo mangiate. A Natale voi mangiate il capretto”. Ma ce ne voleva anche una che assicurasse il latte. Ce ne indicò una balzata addirittura sulla mangiatoia, che sembrava guardarci torvamente: “Quella, è un po’ bizzarra ma due o tre litri di latte ve li da di sicuro: con trecentomila lire le portate a casa tutte e due”.

Zucchina e Macallè

Erano due animali importanti. Quando si rizzavano sulle gambe di dietro erano alte come me. Eppure non avevano un nome. A una, il nome glielo mise un operaio che nel carezzarla sulla testa la chiamò lì per lì “Zucchina”. Mi piacque. L’altra, ancora più grande, ha delle belle corna, il manto con il colore di un cioccolato piuttosto carico.
Una strana V, ben disegnata sulla testa. Ricordando un paese africano attraversato in un dei miei viaggi, la chiamai Macallè.
Impararono presto a rispondere con un belato tremolo di corrispondenza affettiva al nome assegnato. E’ scritto che il pastore le chiama per nome, le pecore, e queste lo riconoscono dalla voce. Ciò è vero anche per le capre.

Prime delusioni pastorali

Per mungere Macallè non avrebbero dovuto esserci problemi. I radi abitanti che circondano la canonica vengono tutti da zone dove le capre sono proprio di casa. Bisogna dire che il suo latte era veramente squisito e anche abbondante, tanto è vero che mi feci insegnare anche a fare il formaggio che veniva eccellente; dato che il latte avanzava. Però era difficile che questo animale si facesse avvicinare da loro. Bisognava essere in due e naturalmente toccava a me reggerla per le corna. “E’ troppo gelosa del suo latte”, mi dicevano. Era davvero un problema perché per avere il latte bisognava essere in due. Altro che bizzarra!
Quando gli “esperti” per un certo periodo si assentarono non mi rimase altra soluzione che mandare Macallè in vacanza nella vecchia mandria; giusto per il tempo di diventare madre. Ed eccola qua, ancora più soddisfatta per non essere importunata neanche una volta per la questione del latte.
Quanto a Zucchina, lei ci ha giocato davvero; trascorsi i cinque mesi di una gestazione a vuoto, non ci ha fatto vedere niente. Altro che parto gemellare! La pancia che appariva un po’ gonfia era dovuta soltanto alle mangiate di orzo, semola e avena che io non le facevo mancare, anche in considerazione del suo stato. E così, se a Natale abbiamo voluto assaggiare il capretto, siamo dovuti andare da un nostro amico macellaio. Per giunta, ho dovuto scoprire che la carne dei capretti e degli agnelli era anche rincarata...

26 settembre 2013

Francesco Ferrucci e San Miniato

NELL’ANNO DEL SIGNORE 1834
PER DECRETO MUNICIPALE
FU QUI COLLOCATA UNA LAPIDE
CHE INDICA IL LUOGO
DOVE ERA LA MUNITISSIMA PORTA DI GIANO
CHIAMATA DI SAN BENEDETTO
ATTRAVERSO LA QUALE  FRANCESCO FERRUCCI
PASSO’ DA VINCITORE
DISPIEGANDO IL VESSILLO DELLA REPUBBLICA FIORENTINA
CACCIO’ DEL TUTTO LE FOLTE TRUPPE
DELL’IMPERATORE CESARE CARLO V
TENNE LONTANE DAL SACCHEGGIO LE MANI DEI SUOI
IN SEGUITO AFFRONTO’ CON UGUALE SUCCESSO
GLI INSORTI DI VOLTERRA CHE RIPORTO’ ALL’ORDINE
DOPO QUESTE COSE PROPOSTO E INVESTITO
DI PIENO ESEMPLARE COMANDO DELLE MLIZIE FIORENTINE
DALL’AUTORITA’ FIORENTINA
DETTE ACERRIMA BATTAGLIA A GAVINANA
UCCIDENDO MOLTI NEMICI E LO STESSO DUCA D’ORANGE
FINI’ COL SOCCOMBERE IL 4 AGOSTO 1530…
DONANDO GENEROSAMENTE LA PROPRIA VITA
A DECORO E CULMINE DELLA LIBERTA’ D’ITALIA
CHE ORA AHIME’ VOLGE VERSO LA FINE.


Questa lapide si trova al nr. 22 di via Francesco Ferrucci (l'ultima casa ad est di San Miniato), il cui edificio si identificava, un tempo, con la Porta più orientale della città.
Non so se qualcun altro sia passato ad una traduzione di questo storico documento la cui traduzione comporta una certa difficoltà, in quanto tutte le frasi convergono in un unico periodo.
L'amico Alessio Guardini mi segnalava che Giosuè Carducci, in compagnia dei suoi amici, si soffermava spesso davanti a questa epigrafe.

23 settembre 2013

Gli annali di Faggetto: Il ritorno di Burenca - Seconda puntata

Come per assecondare la mia intenzione di studiarlo da vicino, l’uomo col mantello esce di chiesa e si sofferma sul gradone di pietra. Meglio: così posso osservarlo bene e scambiare con lui qualche parola.
E’ un tipo sulla cinquantina. Capelli neri brizzolati di bianco; la barba, che sale sopra le gote, si unisce coi baffi a circondare i labbroni avvinati. Ciò che colpisce più in lui è quello sguardo simpaticamente truce che parte da due cerchi neri neri disegnati su due palle bianche e lucenti come porcellana; le sopracciglia, massicce e sfrangiate, sembrano le ali di un uccellaccio. Il mantello ha come fermagli due borchie d’ottone con le teste di due leoni che mordono una catena dello stesso metallo. Giubba e calzoni, di velluto ben scanalato, hanno il colore dell’antracite. Noto che, invece di una normale cintura, porta ai fianchi una fusciacca scura; questo particolare, insieme ai pantaloni alla zuava lo fanno sembrare un carbonaro vestito alla garibaldina.
“Dunque…” incomincio, manifestando l’intenzione di pigliare il gioco in mano.
“Dunque..” ripete lui, dandomi uno sguardo traverso e accennando ad un sorriso, quanto basta per mostrarmi dei denti solidi e ben allineati.
“Come ti chiami?”.
“Il mio nome è Burenca”. Scandisce con una certa enfasi e ultime sillabe.
“Lo sai bene, Burenca è morto da mezzo secolo. Però ho capito: sei uno che intende pigliare il suo posto”.
“Tu ci hai dato dentro! Ora te la fo io una domanda: A te, che te n’importa?”.
“Io sono il pastore delle pecore ed anche dei montoni; me ne devo occupare per forza. Mi dici cosa adoperi per… dare quest’acquasanta alla gente?”. Ho accompagnato la domanda con il gesto di aspergere.
“Con cosa la schizzo? Adopero un mazzettino di ramerino”.
“Proprio come Burenca!”. Allora sei riuscito a trovare il suo libro delle benedizioni!”.
“Senza quello non avrei mai e poi mai incominciato questo mestiere”.
“Ho capito: per te questo sarebbe un mestiere! Approfittare della povera gente dando ad intendere che puoi guarirla da tutti i malanni”.
“Ma lo vuoi capire o non lo vuoi capire che le persone vengono da me senza che io le chiami? La vedi la differenza: tu le chiami in Chiesa e non ti ci vengono. Da me ci vengono e mi portano d’ogni cosa un po’. Io ci so fare e tu no. Tu mi invidi, tu mi invidi e basta”.
“Sta sicuro che non mi passa neanche per l’anticamera del cervello l’idea di rubarti il mestiere! Invece sei tu che vieni qui per rubarmi l’acqua santa”.
“Ma se io adopro quest’acqua benedetta invece della semplice acqua piovana, che male fo? Tu mi devi dire che male c’è!”.
Questo Burenca è un osso duro. Cerco di fargli capire che non bisogna illudere la povera gente.
“E chi illude la povera gente? Vengono da me persone (anche la moglie di un dottore è venuta da me) che sono in pena e ritornano sollevate. Vengono con dei dolori che il medico non sa curare e, con me, si sentono meglio”.
Non c’è verso: non ci si fa. Decido di lasciarlo partire senza levargli il fiasco dell’acqua.
“Burenca, s’è fatto tardi e tu non hai il lanternino per farti lume. Ti do la buonanotte”.
“Buonanotte anche a te! E non te la pigliare per quello che t’ho detto. Per ritornare al casotto c’è un pò di luna: mi basta”.
E’ sparito come sparisce un gatto nero nella notte.
Non era passata una settimana dal nostro incontro, quando ho trovato una sorpresa: attaccata al battente di casa ho trovato una mezza nana con un biglietto firmato da Burenca.

Questo fatto, che rappresentava una specie di partecipazione agli utili, ha prodotto in me un problema morale. Baratto tra una cosa sacra ed una profana? Sarebbe simonia! Ma io non avevo pensato a questo quando gli ho lasciato l’acquasanta e forse nemmeno Burenca ci ha pensato. Come fare? Potrei consultare quelli della Curia; ma, se mi presento con la nana, va a finire che, per tranquillizzarmi, se la mangiano loro. Decido di consultare l’Artusi. L’ho messa in tegame con battuto di cipolla, prezzemolo e carote, più una scorza di limone. Al momento di versare il vino bianco ho tolto l’umido per condire la pastasciutta. E’ venuta bona!


FINE

19 settembre 2013

Gli annali di Faggetto: Il ritorno di Burenca - Prima puntata

Avevo letto nelle note parrocchiali di Faggeto che, da queste parti, qualche decina di anni fa, è vissuto un certo Burenca.
Quando suo padre, che si chiamava Doriano, serrò gli occhi, Burenca si decise: lasciata l’abitazione in località “Casotti”, andò a vivere nella pineta di Ceciana; qui costruì proprio con le sue mani una casetta, un po’ grotta un po’ capanna: quella che ad oggi esiste ancora col nome di “casotto di Burenca”. Quando la gita toccava alla zona di Ceciana, i ragazzi che mi accompagnavano per la benedizione delle case non potevano fare a meno di domandarmi di questo Burenca. Raccontavo che la gente lo considerava una specie di stregone, ma di quelli bravi davvero… Ci andavano persone che si sentivano inquiete e pensavano di essere un po’ spiritate… Poi andavano da lui quelli che non avevano malattie “precise” (come quando il dottore dice: qui non ci capisco niente).
“E ci andava davvero parecchia gente?”.
“Eccome! Dicono che gli portavano d’ogni cosa un po’: polli, piccioni, nane, fagiani e perfino qualche lepre… Questo ve lo garantisco: se Burenca è morto , non è morto di sicuro di fame!”.
Proprio in questi giorni è corsa voce che un individuo sarebbe venuto a pigliare il posto di Burenca e si troverebbe proprio nel suo “casotto”. Quasi quasi non ci credevo, anche perché il libro che adoprava Burenca per le benedizioni l’avranno cercato in mille ma nessuno l’ha trovato. Sarà qualcuno in cassa integrazione che è venuto a passare qualche ora in campagna. Però guardando per caso da quella parte, o non ho visto spuntare dalla capanna proprio un fil di fumo? Qui gatta ci cova!
C’è in parrocchia uno che vuole fare il furbo e vuole sfruttare il buon avviamento lasciato da Burenca, e Visentini non lo sa.
Cerco di tranquillizzarmi pensando tra me e me: se son rose fioriranno. Infatti rileggendo le note di Faggeto avevo appreso quello che secondo me risultava un punto debole per uno che avesse voluto fare proprio come Burenca: per fare le sue benedizioni Burenca veniva a “rubare” l’Acqua Santa in Chiesa. Allora questo tizio avrebbe dovuto venire allo scoperto. Si trattava di gattonarlo e di aspettarlo al varco…
Ed ecco che la sera di domenica, sull’imbrunire, mentre mi trovavo seduto sulla panca del coro… chi ti vedo arrivare? Una figura scura scura con un gran mantello nero mezzo avvolto sulle spalle. Va verso la pila dell’Acqua Santa… tira fuori un fiaschettino; c’infila un imbuto e tuffando un misurino di quelli che servivano per il latte comincia a mescere…
“Fermo là!”.
“Che c’è?” fa lui fingendo di essere sorpreso, come se mi dicesse: “Ma tu che c’entri?”.
“Ti c’ho preso, eh? Ho capito: tu vuoi fare come Burenca che veniva a rubare l’Acqua Santa?”. “Rubare? Ma di chi è l’acqua santa?”.
“L’acqua santa, la fa il prete per la gente che viene regolarmente in Chiesa”.
“Va bene: l’acqua santa, l’hai fatta tu e lo riconosco: è per questo che la vengo a prendere qui. Una volta benedetta, l’acqua è di chi la piglia. Questa la piglio io ed ora è mia. Ma dov’è scritto che chi piglia l’Acqua Santa fa un furto?”.

Mentre parla continua a lavorare col suo misurino d’alluminio. Ora che l’ho preso in flagrante, non posso mollare, ma riconosco dentro di me che neanche nel vecchio Codice esiste una norma che proibisca una cosa del genere: non è proprio previsto. Che questo nuovo Burenca sia uno che la sa lunga sulle nostre cose? Decido di avvicinarmi per vedere bene in faccia l’individuo con cui ho a che fare.

Continua...

18 luglio 2013

Il Vescovo manovale

Predicò, implorò, offrì tutto quello che aveva per fare arrivare le pietre dalla cava che era lontana. Questo Vescovo aveva capito che non si sarebbe potuto edificare il Santuario del SS. Crocifisso senza l’aiuto di tutti. Era tanto lo zelo che lo divorava per la casa di Dio che anche lui andò dal capo cantiere perché gli assegnasse un lavoro. Lui lo destinò alla parete orientale e gli disse di presentarsi ad un certo Lapo che era il più giovane ed anche il più bravo tra mastri muratori.
Andò a cercare di questo Lapo e lo trovò che tendeva la corda: “Tu vuoi fare il manovale? Sei Vescovo e vuoi lavorare sotto di me? Non è possibile!”. Il Vescovo gli rispose: “Tutti devono fare qualcosa. Ma non deve succedere come per la torre di Babele a causa della grande confusione. Quanto a me, io non so mettere un mattone sopra l’altro. Questo non me l’hanno insegnato. Ma tu in questo sei molto bravo, mi dicono. Vuol dire che tu comanderai e io obbedirò. Ti prego, pigliami come secondo manovale!”.
Lui faceva del suo meglio perché la buona volontà ce la metteva. Un giorno di solleone non ce la faceva più per il caldo e sentì che non poteva sollevare la caldarella verso il palco dove Lapo lavorava; le mani gli tremavano e allora gli disse: “Aiutami un po’”. Il mastro, che aveva delle braccia come il bronzo delle statue antiche, afferrò la caldarella e la issò con facilità sull’abetella.
Estate, autunno e inverno. Poi ancora estate. Venne l’autunno e come la Chiesa fu finita incominciarono i festeggiamenti per la solenne inaugurazione. Uno di quei giorni Lapo si trovava in Chiesa quando vide uscire dalla sagrestia la grande figura del celebrante. Le mani che aveva lunghe e sottili erano infilate in due guanti di seta ricamata con lamelle d’oro e pietre che avevano colore e forma di chicchi di melagrana. Con la sinistra reggeva il pastorale luminoso come un raggio di luce e la sua destra benediceva, benediceva… Lapo lo guardava e non sapeva se entrava o se usciva da un sogno: il suo Vescovo era il suo operaio e il suo operai era il suo Vescovo.
In quei giorni molti si accostavano ai sacramenti. Il Vescovo aveva fatto sistemare uno scanno al fianco dell’altare della sagrestia ed era lì che accoglieva i penitenti. Ed ecco arrivare Lapo e mettersi in ginocchio. Incominciò così: “Ho capito che mi mancava un’altra cosa da fare. Ma è tanto tempo e forse non ho ancora imparato a confessarmi. Ora tocca a te. Aiutami un po’”. Il Vescovo sentì passare dentro di sé il fiotto della misericordia divina che non scorre senza dare grande gioia anche in chi la trasmette, poi con tenerezza prese tra le sue quelle mani che ora tremavano un po’ e come il Samaritano si occupò di tutte le sue ferite. Prima che finisse, Lapo fece: “A volte ho bestemmiato sul lavoro. A volte la calcina che mi portavi era troppo magra, a volte era troppo grassa e quando il lavoro non veniva come volevo io perdevo la pazienza. Questo lavoro per cui non ho preso neanche una lira, ho paura che non mi conti proprio nulla. Ho fatto male”. 
Il Vescovo gli disse: “Non ti pentirai mai del bene che hai fatto, pentiti solo del male, in altro tempo non avrei potuto parlarti così: ma bisognava che lavorassi tanti giorni insieme con te per dirti questo: le tue parole le ha portate con sé il vento, il tempio per cui hai tanto lavorato si è innalzato molto più in alto. Lo vedi? E’ sopra di noi!”.

08 luglio 2013

Una palestra della mente

Da Reality Magazine - Giugno 2013

Credenze popolari

Ci sono espressioni che riflettono un oscuro senso di paura. Un fatto diventa segno e funziona da messaggio di un evento imminente. La gente dice semplicemente: “E’ un segno male” (bisogna notare la forza incisiva di questa espressione). Esiste anche: “porta bene o porta male”. Ma andiamo avanti passando in rassegna alcuni incentivi occasionali per il presagio funesto o negativo.

Il verso della civetta


Il verso della civetta: “è segno male” (preannuncia dei lutti in famiglia). Anche quando il cane ulula come un lupo e non abbaia ‘a cane’ (come sarebbe naturale), c’è da aspettarci qualcosa di brutto. Ho raccolto da queste parti un curioso proverbio che dice: “Quando la gallina canta, la famiglia o cresce o manca”. Vuol dire che quando la gallina si prova a cantare (come il gallo), la famiglia o crescerà per una nascita o diminuirà per un lutto.

L'orologio di San Pasquale


Poi c’è la faccenda dell’“orologio di San Pasquale”. Dice il proverbio: “Orologio di San Pasquale – o bene bene o male male”. Ma cos’è questo misterioso orologio? C’è gente disposta a giurare di averlo sentito veramente.
Dicono che si avverte per lo più di notte, lungo una parete, all’improvviso.
Smette e poi ricomincia. E’ un tintinnio garrulo, quasi canzonatorio. Questo aumenta il brivido, invece di diminuirlo. Il suono ritmato sulle pulsazioni del cuore di chi ascolta, reca allarme e ansietà per la duplice ambiguità del messaggio: Cosa succederà e chi succederà?

Sortilegi popolari


Si conserva traccia di alcune formule di esorcismo e di sortilegio popolare, atte ad allontanare l’effetto negativo e a rimuovere così la paura. Uno che si trova sulla riva di un torrente, prima di dissetarsi portando le mani “a giumella” verso le labbra, diceva: “Acqua corrente/la beve il serpente/la beve Dio/la posso bere anch’io”. Il timore che l’acqua potesse essere infetta veniva di fatto debellato attraverso un rito propiziatorio che intendeva coinvolgere il Creatore con la sorte della creatura.

Il bruciaculo


Un'operazione che il contadino, disperato per le scorrerie dei ragazzi che rubavano la frutta, era quella del "Bruciaculo". Inevitabilmente, trovandosi in piena campagna, i piccoli predatori lasciavano traccia di se con i loro escrementi coperti alla meglio da una pampana di fico o di vite.
Che faceva il contadino? Con della sterpaglia o con della paglia circondava quei piccoli monumenti a cui dava fuoco. Partiva dalla convinzione, condivisa da molti, che il "malcapitato" provasse un gran bruciore nel deretano. La cosa poteva diventare anche una minaccia: "Guarda che se tu torni nel mio podere ti fo il bruciaculo".

Il lupo mannaro


La paura acquista concretezza emblematica nell'immagine che si proponeva al bambino del “Bubbo”, dell’”Omo nero” e del “lupo mannaro”. Cercherei la chiave di questa denominazione ricorrente nella parola “mannaia”. Mannaro è chi usa la mannaia., il boia incappucciato, insomma.

Caino fa le frittelle


Il bambino ha istintiva paura del buio, anche della notte, dunque. Le stelle e la luna sono il tramite attraverso il quale è chiamato a vincere questa paura. Egli impara a cantare: “Vedo la luna/vedo le stelle/vedo Caino che fa le frittelle. Vedo la luna/affaccendata/vedo Caino che fa la frittata”.
A giugno il bambino può correre di notte cantando: “Lucciola lucciola/vien da me/che ti do/il pan del re/pan del re/e della regina/lucciola lucciola/vien vicina”. Fermiamoci a considerare la forza poetica di quella invocazione, cantata nell'età in cui uno poteva pensare che le lucciole fossero stelle un po’ più vicine e le stelle lucciole un po’ più lontane.

04 luglio 2013

Gesti e parole nel costume della nostra gente

Sassi sulla finestra

Resistono, nelle espressioni popolari ancora in uso da queste parti, chiari signacoli sulle cui tracce è possibile fare un viaggio affascinante nella storia del costume della nostra gente. Si scoprono in questo cammino i gesti e le parole che compongono il segno di una liturgia popolare che ha per lo più intonazione cristiana, in una ritualità che accoglie il profano e perfino il pagano. Si pensi per un momento alla festa di San Lazzaro; in quest’occasione le ragazze lanciano accuratamente un sasso verso la finestra della chiesuola cercando di farlo rimanere entro il davanzale interno. La ragazza che ci riesce deve precipitarsi a darne annuncio facendo suonare la campanella della sacrestia: troverà il fidanzato entro l’anno e, se è più fortunata, anche il giorno stesso.

La leccata del bue

Il bambino “rinnova” il fonte se per primo usa l’acqua benedetta nel Sabato Santo: si possono trarre buoni auspici sul suo avvenire. Si stava attenti, durante la vecchia cerimonia del Battesimo, se la creatura succhiava volentieri il sale deposto sulle sue labbra: “Se mangia il sale diventerà sapiente”.
A volte il bambino ha una strana “ritrosa” sulla fronte, per cui i capelli tendono da quella parte ad andare all’indietro; si dice semplicemente che “ha la leccata del bue”. L’espressione, ignota, nella sua spiegazione anche a chi la usa, ha fondamento in una delicatissima tradizione popolare: Gesù nasce tra il bue e l’asinello. E’ accaduto che il bue si è avvicinato un po’ troppo… e ha leccato il Bambino sulla fronte con un complimento che riserva ai vitellini. Sta il fatto che chi porta questa “leccata” ha il segno di un carisma che lo configura un po’ al Redentore.
Il bambino nella culla fa delle piccole smorfie, sorride tra sé, alluna gli occhi: ha il “benedetto” si dice. Ma che cos’è questo “benedetto” ? Ho provato a domandarlo alla gente. E’ quando uno sogna e sta sveglio.
E’ quando uno parla con sé e con noi no. Ci aiuta il grande dizionario del Battaglia: “Morbus sacer, mal caduco, che nei bambini è detto ‘mal benedetto’”.
La madre osserva con un po’ di rispetto e un po’ di allarme gli accenni di quella estasi malata che parla di incomunicabili visioni che può avere il piccino in quei momenti particolari.

I bambini vanno ritti prima...

Il bambino che entra in un gregge e riesce ad abbracciare tre pecore sarà sempre fortunato (forse perché l’operazione è davvero difficile!). Nella campagne, nell’imminenza di un temporale, toccava al più piccino“buttare” l’acqua santa. Così si eliminano i danni. Gli si insegna anche che il pane non si deve gettare via. Se proprio è necessario, prima deve baciarlo.
Nella notte di Natale non si deve spegnere il ceppo sul camino. E’ segno buono se si trova acceso la mattina. Per la nottata tra i Santi e i Morti si accendono i lumini in casa, perché in quella notte i morti “girano” e vengono a far visita alle loro case. Allora no si va a veglia perché si potrebbero incontrare e si va a letto per non disturbare… Si usava, dopo lo scioglimento delle campane del Sabato Santo, “sfruconare” la terra dei vasi delle viole: “così vengono doppie”. In questa occasione i bambini venivano fatti attraversare la strada, perché “così vanno ritti prima”.
In Val d’Egola al suono delle campane del Sabato Santo si abbracciavano gli alberi da frutto: “così daranno più frutti nell’annata”.

La croce sul pagliaio

Per San Giovanni si fanno i fuochi e si brucia la “mosca”: un mazzetto di spighe di grano, con un capo d’aglio, indicato contro le streghe. Si usa anche l’acqua di S. Giovanni e quella della Madonna. Ci si mettono dentro dei petali di rosa; la catinella deve stare a cielo aperto tutta la notte; la mattina ci si lava con quella per diventare… più freschi e più belli.
Tuttora in alcune parrocchie si fa la benedizione della mortella (il mirto), pianta sacerdotale presso i Romani. Serve ad allontanare le bufere.
Biade vengono benedette e destinate a gli animali da stalla che devono assaggiare anche il pane di S. Antonio. Un ramo di ulivo ed uno di mortella venivano issati allo stollo del pagliaio. La croce del pagliaio deve “guardare quella della Chiesa a cui il popolo appartiene”.

01 luglio 2013

Le Fonti alle Fate

Foto di Rita Costagli

Un ambiente di insospettabile suggestione

Ecco un posto la cui stessa denominazione ha un significato lirico ed evocativo capace di attirare qualunque visitatore. In realtà sono in molti i sanminiatesi che non l’hanno mai visto; c’è di più: anche per coloro che già lo conoscevano è un problema ritrovarlo. La macchia seppellisce ogni cosa. Non esiste una vera guida; non rimane un tracciato; mancano indicazioni. Le fonti alle fate a San Miniato resistono solo come nome, anche per le scolaresche che inventano motivi di uscita nei giorni di sole. Offrirebbe invece l’opportunità di una passeggiata bellissima a nord-est di San Miniato che riserba, come meta, un ambiente di insospettabile suggestione.

Un cielo di piccole stalattiti

Si tratta praticamente di un antro multiplo che fino a poco tempo fa fungeva da collettore delle acque che sgorgavano da una sorgente perenne. La costruzione, certamente secolare, è in qualche modo incassata nello sperone collinare; si accede al pianoro che introduce alle arcate attraverso una scala in cotto in cui i laterizi rossastri rimangono evidenti tra le toppe di muschio verdissimo; è il muschio scivoloso a rendere circospetto il passo di qualsiasi visitatore. All’interno di una di queste arcate parzialmente chiuse si poteva vedere un cielo di piccole stalattiti; sullo specchio d’acqua limpidissima grondavano in continuazione gocce d’acqua, con un arpeggio ritmato che era l’unico suono avvertibile nella silenziosa solitudine di questo luogo. 

Il luogo delle ninfe

Per noi ginnasiali era il luogo delle ninfe: presenze nascoste di figure invisibili, certamente evocate dalle “Metamorfosi” di Ovidio. Così almeno si diceva quando andavamo con i nostri libri a prepararci per gli esami di latino che a quei tempi erano immancabilmente annuali. Alcuni trovavano il posto capace di suscitare oscure paure, specialmente di notte.