31 gennaio 2012

La parabolla dei talenti II

Con la parola "talento", nel linguaggio corrente ha preso ormai  la prevalenza sul significato originario, quello estensivo. Quindi, più che disponibilità pecunaria, sta a significare: capacità, attitudine, dote connaturale, anche estro, attitudine creativa, potere attrattivo e organizzativo; significa ancora carisma, di cui dò una mia definizione:  un dono consegnato all'individuo a sevizio della comunità.
Il talento si spende nella sfera della collettività; il carisma in quello della comunità: entrambi si esprimono come una forza espansiva, accolti dall'individuo come doni che vengono dall'alto, devono essere partecipati come beni da consegnare agli altri. Ecco come l'agiografo si esprime nel capitolo 7 della Sapienza: "Senza frode imparai la sapienza e senza invidia la dono, non nascondo le mie ricchezze. Essa è un tesoro inesauribile per gli uomini; quanti se la procurano si attirano l'amicizia con Dio".
In questa partecipazione del bene non ci dovrebbe essere posto per l'invidia. E invece c'è questa erbaccia che attecchisce dovunque... Accade che uno, quando scopre che un altro ha una dote che lui non ha, invece di rallegrarsi per una luce che lo può investire, si rattrista per l'ombra che in quel momento produce la propria figura.
Invidia stolta e anche peccaminosa. E' stolta: se scopriamo nel prossimo una qualità che noi non abbiamo, vuol dire che lui è caricato di una responsabilità maggiore; ci dovremmo sentire sollevati ed ancora di più impegnati a scoprire  i doni che ci furono elargiti non per la nostra vanità ma per il servizio degli altri. E' peccaminosa: i peccati contro lo Spirito Santo per lo più sono radicati nel vizio della Superbia; ma ce n'è uno correlato all'invidia. Dice così: invidia della grazia altrui; chi invidia è come se imprecasse contro la mano di Dio che elargisce liberamente e per questo peccato non c'è remissione...

23 gennaio 2012

La parabola dei talenti.

Un amico mi ha invitato a parlare della parabola dei talenti: Io lo farò, ma credo che un solo post non mi basterà per trattare l'argomento.
 Cos'è il talento? Non certamente una grossa moneta come alcuni pensano, ma più precisamente un'unità di misura di massa, corrispondente secondo i Babilonesi e i Sumeri al peso e al valore di oltre 36 kilogrammi d'argento: una massa che non sarebbe entrata in una borsa di cuoio, per la stessa ragione per cui un barile di vino non potrebbe essere contenuto in una brocca di creta o un ettaro di terra non potrebbe entrare in una balla di canapa.
Quel signore, prima di partire per un lungo viaggio, assegnò ai suoi servi una grossa disponibilità di denaro. Ma in misura diversa: ad uno assegnò cinque talenti, ad un altro, due; ad un terzo soltanto uno. Sempre una somma cospicua. Si allontanò  e si fece vivo soltanto dopo aver lasciato loro il tempo di farli fruttificare come lui avevo ingiunto. Eccome si fece vivo! Lodò e gratificò chi aveva raddoppiato il bene affidato; ma chiamò infingardo il terzo
che aveva sotterrato ciò che gli aveva consegnato. La fine di quell'uomo fu un carcere dove c'è pianto e stridore di denti.
Dal breve discorso evangelico, che io ho strinto ancora di più, ricaviamo quanto basta per fare una prima considerazione: Il Signore, dalle inesauribili riserve, consegna  a ciascuno di noi un bene e ci assegna un compito corrispondente alle capacità che abbiamo di farlo fruttare.  Attenzione! Nelle mani di chi lo riceve ogni talento diventa un terribile privilegio!

09 gennaio 2012

Una domanda precisa

"Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero se poi perde l'anima? O  con che cosa l'uomo può barattare la propria anima?" Le parole, riportate da Marco, il più asciutto tra gli Evangelisti, non sono espresse in forma di asserzione, ma di domanda. Quando uno asserisce sembra dire: io la penso così; ma quando uno domanda sembra dire: ma tu, come la pensi? Allora comprendi, questo capisci, che non hai scampo: la freccia scoccata da remota distanza, partita da un arco misterioso di cui non avevi percepito nemmeno la presenza, ormai ti ha raggiunto, ti ha raggiunto non come un messaggio ostile, ma quasi come una dichiarazione d'amore. Rassicurante o inquietante, ti farà compagnia di giorno e farà incursione nei tuoi sogni la notte. E' una domanda precisa che chiede una risposta decisa. Che giova all'uomo..... se poi perde l'anima?
Questa stessa domanda fu rivolta da Ignazio di Lojola a Francesco Saverio quando i due s'incontrarono a Parigi. Entrambi erano venuti alla Universtà della Sorbona per studiare Teologia. Francesco, un giovane in cui la natura si era divertita a concentrare i doni più ambiti: giovinezza, bellezza, intelligenza e bontà, poteva sembrare
attrezzato per partire alla conquista del mondo. Ma cercò in sé una risposta, e in sè la trovò. Rinunciando ad essere un conquistatore, diventò un missionario. Dedicandosi esclusivamente alla cura delle anime, mise in sicurezza anche la sua.