18 luglio 2013

Il Vescovo manovale

Predicò, implorò, offrì tutto quello che aveva per fare arrivare le pietre dalla cava che era lontana. Questo Vescovo aveva capito che non si sarebbe potuto edificare il Santuario del SS. Crocifisso senza l’aiuto di tutti. Era tanto lo zelo che lo divorava per la casa di Dio che anche lui andò dal capo cantiere perché gli assegnasse un lavoro. Lui lo destinò alla parete orientale e gli disse di presentarsi ad un certo Lapo che era il più giovane ed anche il più bravo tra mastri muratori.
Andò a cercare di questo Lapo e lo trovò che tendeva la corda: “Tu vuoi fare il manovale? Sei Vescovo e vuoi lavorare sotto di me? Non è possibile!”. Il Vescovo gli rispose: “Tutti devono fare qualcosa. Ma non deve succedere come per la torre di Babele a causa della grande confusione. Quanto a me, io non so mettere un mattone sopra l’altro. Questo non me l’hanno insegnato. Ma tu in questo sei molto bravo, mi dicono. Vuol dire che tu comanderai e io obbedirò. Ti prego, pigliami come secondo manovale!”.
Lui faceva del suo meglio perché la buona volontà ce la metteva. Un giorno di solleone non ce la faceva più per il caldo e sentì che non poteva sollevare la caldarella verso il palco dove Lapo lavorava; le mani gli tremavano e allora gli disse: “Aiutami un po’”. Il mastro, che aveva delle braccia come il bronzo delle statue antiche, afferrò la caldarella e la issò con facilità sull’abetella.
Estate, autunno e inverno. Poi ancora estate. Venne l’autunno e come la Chiesa fu finita incominciarono i festeggiamenti per la solenne inaugurazione. Uno di quei giorni Lapo si trovava in Chiesa quando vide uscire dalla sagrestia la grande figura del celebrante. Le mani che aveva lunghe e sottili erano infilate in due guanti di seta ricamata con lamelle d’oro e pietre che avevano colore e forma di chicchi di melagrana. Con la sinistra reggeva il pastorale luminoso come un raggio di luce e la sua destra benediceva, benediceva… Lapo lo guardava e non sapeva se entrava o se usciva da un sogno: il suo Vescovo era il suo operaio e il suo operai era il suo Vescovo.
In quei giorni molti si accostavano ai sacramenti. Il Vescovo aveva fatto sistemare uno scanno al fianco dell’altare della sagrestia ed era lì che accoglieva i penitenti. Ed ecco arrivare Lapo e mettersi in ginocchio. Incominciò così: “Ho capito che mi mancava un’altra cosa da fare. Ma è tanto tempo e forse non ho ancora imparato a confessarmi. Ora tocca a te. Aiutami un po’”. Il Vescovo sentì passare dentro di sé il fiotto della misericordia divina che non scorre senza dare grande gioia anche in chi la trasmette, poi con tenerezza prese tra le sue quelle mani che ora tremavano un po’ e come il Samaritano si occupò di tutte le sue ferite. Prima che finisse, Lapo fece: “A volte ho bestemmiato sul lavoro. A volte la calcina che mi portavi era troppo magra, a volte era troppo grassa e quando il lavoro non veniva come volevo io perdevo la pazienza. Questo lavoro per cui non ho preso neanche una lira, ho paura che non mi conti proprio nulla. Ho fatto male”. 
Il Vescovo gli disse: “Non ti pentirai mai del bene che hai fatto, pentiti solo del male, in altro tempo non avrei potuto parlarti così: ma bisognava che lavorassi tanti giorni insieme con te per dirti questo: le tue parole le ha portate con sé il vento, il tempio per cui hai tanto lavorato si è innalzato molto più in alto. Lo vedi? E’ sopra di noi!”.

08 luglio 2013

Una palestra della mente

Da Reality Magazine - Giugno 2013

Credenze popolari

Ci sono espressioni che riflettono un oscuro senso di paura. Un fatto diventa segno e funziona da messaggio di un evento imminente. La gente dice semplicemente: “E’ un segno male” (bisogna notare la forza incisiva di questa espressione). Esiste anche: “porta bene o porta male”. Ma andiamo avanti passando in rassegna alcuni incentivi occasionali per il presagio funesto o negativo.

Il verso della civetta


Il verso della civetta: “è segno male” (preannuncia dei lutti in famiglia). Anche quando il cane ulula come un lupo e non abbaia ‘a cane’ (come sarebbe naturale), c’è da aspettarci qualcosa di brutto. Ho raccolto da queste parti un curioso proverbio che dice: “Quando la gallina canta, la famiglia o cresce o manca”. Vuol dire che quando la gallina si prova a cantare (come il gallo), la famiglia o crescerà per una nascita o diminuirà per un lutto.

L'orologio di San Pasquale


Poi c’è la faccenda dell’“orologio di San Pasquale”. Dice il proverbio: “Orologio di San Pasquale – o bene bene o male male”. Ma cos’è questo misterioso orologio? C’è gente disposta a giurare di averlo sentito veramente.
Dicono che si avverte per lo più di notte, lungo una parete, all’improvviso.
Smette e poi ricomincia. E’ un tintinnio garrulo, quasi canzonatorio. Questo aumenta il brivido, invece di diminuirlo. Il suono ritmato sulle pulsazioni del cuore di chi ascolta, reca allarme e ansietà per la duplice ambiguità del messaggio: Cosa succederà e chi succederà?

Sortilegi popolari


Si conserva traccia di alcune formule di esorcismo e di sortilegio popolare, atte ad allontanare l’effetto negativo e a rimuovere così la paura. Uno che si trova sulla riva di un torrente, prima di dissetarsi portando le mani “a giumella” verso le labbra, diceva: “Acqua corrente/la beve il serpente/la beve Dio/la posso bere anch’io”. Il timore che l’acqua potesse essere infetta veniva di fatto debellato attraverso un rito propiziatorio che intendeva coinvolgere il Creatore con la sorte della creatura.

Il bruciaculo


Un'operazione che il contadino, disperato per le scorrerie dei ragazzi che rubavano la frutta, era quella del "Bruciaculo". Inevitabilmente, trovandosi in piena campagna, i piccoli predatori lasciavano traccia di se con i loro escrementi coperti alla meglio da una pampana di fico o di vite.
Che faceva il contadino? Con della sterpaglia o con della paglia circondava quei piccoli monumenti a cui dava fuoco. Partiva dalla convinzione, condivisa da molti, che il "malcapitato" provasse un gran bruciore nel deretano. La cosa poteva diventare anche una minaccia: "Guarda che se tu torni nel mio podere ti fo il bruciaculo".

Il lupo mannaro


La paura acquista concretezza emblematica nell'immagine che si proponeva al bambino del “Bubbo”, dell’”Omo nero” e del “lupo mannaro”. Cercherei la chiave di questa denominazione ricorrente nella parola “mannaia”. Mannaro è chi usa la mannaia., il boia incappucciato, insomma.

Caino fa le frittelle


Il bambino ha istintiva paura del buio, anche della notte, dunque. Le stelle e la luna sono il tramite attraverso il quale è chiamato a vincere questa paura. Egli impara a cantare: “Vedo la luna/vedo le stelle/vedo Caino che fa le frittelle. Vedo la luna/affaccendata/vedo Caino che fa la frittata”.
A giugno il bambino può correre di notte cantando: “Lucciola lucciola/vien da me/che ti do/il pan del re/pan del re/e della regina/lucciola lucciola/vien vicina”. Fermiamoci a considerare la forza poetica di quella invocazione, cantata nell'età in cui uno poteva pensare che le lucciole fossero stelle un po’ più vicine e le stelle lucciole un po’ più lontane.

04 luglio 2013

Gesti e parole nel costume della nostra gente

Sassi sulla finestra

Resistono, nelle espressioni popolari ancora in uso da queste parti, chiari signacoli sulle cui tracce è possibile fare un viaggio affascinante nella storia del costume della nostra gente. Si scoprono in questo cammino i gesti e le parole che compongono il segno di una liturgia popolare che ha per lo più intonazione cristiana, in una ritualità che accoglie il profano e perfino il pagano. Si pensi per un momento alla festa di San Lazzaro; in quest’occasione le ragazze lanciano accuratamente un sasso verso la finestra della chiesuola cercando di farlo rimanere entro il davanzale interno. La ragazza che ci riesce deve precipitarsi a darne annuncio facendo suonare la campanella della sacrestia: troverà il fidanzato entro l’anno e, se è più fortunata, anche il giorno stesso.

La leccata del bue

Il bambino “rinnova” il fonte se per primo usa l’acqua benedetta nel Sabato Santo: si possono trarre buoni auspici sul suo avvenire. Si stava attenti, durante la vecchia cerimonia del Battesimo, se la creatura succhiava volentieri il sale deposto sulle sue labbra: “Se mangia il sale diventerà sapiente”.
A volte il bambino ha una strana “ritrosa” sulla fronte, per cui i capelli tendono da quella parte ad andare all’indietro; si dice semplicemente che “ha la leccata del bue”. L’espressione, ignota, nella sua spiegazione anche a chi la usa, ha fondamento in una delicatissima tradizione popolare: Gesù nasce tra il bue e l’asinello. E’ accaduto che il bue si è avvicinato un po’ troppo… e ha leccato il Bambino sulla fronte con un complimento che riserva ai vitellini. Sta il fatto che chi porta questa “leccata” ha il segno di un carisma che lo configura un po’ al Redentore.
Il bambino nella culla fa delle piccole smorfie, sorride tra sé, alluna gli occhi: ha il “benedetto” si dice. Ma che cos’è questo “benedetto” ? Ho provato a domandarlo alla gente. E’ quando uno sogna e sta sveglio.
E’ quando uno parla con sé e con noi no. Ci aiuta il grande dizionario del Battaglia: “Morbus sacer, mal caduco, che nei bambini è detto ‘mal benedetto’”.
La madre osserva con un po’ di rispetto e un po’ di allarme gli accenni di quella estasi malata che parla di incomunicabili visioni che può avere il piccino in quei momenti particolari.

I bambini vanno ritti prima...

Il bambino che entra in un gregge e riesce ad abbracciare tre pecore sarà sempre fortunato (forse perché l’operazione è davvero difficile!). Nella campagne, nell’imminenza di un temporale, toccava al più piccino“buttare” l’acqua santa. Così si eliminano i danni. Gli si insegna anche che il pane non si deve gettare via. Se proprio è necessario, prima deve baciarlo.
Nella notte di Natale non si deve spegnere il ceppo sul camino. E’ segno buono se si trova acceso la mattina. Per la nottata tra i Santi e i Morti si accendono i lumini in casa, perché in quella notte i morti “girano” e vengono a far visita alle loro case. Allora no si va a veglia perché si potrebbero incontrare e si va a letto per non disturbare… Si usava, dopo lo scioglimento delle campane del Sabato Santo, “sfruconare” la terra dei vasi delle viole: “così vengono doppie”. In questa occasione i bambini venivano fatti attraversare la strada, perché “così vanno ritti prima”.
In Val d’Egola al suono delle campane del Sabato Santo si abbracciavano gli alberi da frutto: “così daranno più frutti nell’annata”.

La croce sul pagliaio

Per San Giovanni si fanno i fuochi e si brucia la “mosca”: un mazzetto di spighe di grano, con un capo d’aglio, indicato contro le streghe. Si usa anche l’acqua di S. Giovanni e quella della Madonna. Ci si mettono dentro dei petali di rosa; la catinella deve stare a cielo aperto tutta la notte; la mattina ci si lava con quella per diventare… più freschi e più belli.
Tuttora in alcune parrocchie si fa la benedizione della mortella (il mirto), pianta sacerdotale presso i Romani. Serve ad allontanare le bufere.
Biade vengono benedette e destinate a gli animali da stalla che devono assaggiare anche il pane di S. Antonio. Un ramo di ulivo ed uno di mortella venivano issati allo stollo del pagliaio. La croce del pagliaio deve “guardare quella della Chiesa a cui il popolo appartiene”.

01 luglio 2013

Le Fonti alle Fate

Foto di Rita Costagli

Un ambiente di insospettabile suggestione

Ecco un posto la cui stessa denominazione ha un significato lirico ed evocativo capace di attirare qualunque visitatore. In realtà sono in molti i sanminiatesi che non l’hanno mai visto; c’è di più: anche per coloro che già lo conoscevano è un problema ritrovarlo. La macchia seppellisce ogni cosa. Non esiste una vera guida; non rimane un tracciato; mancano indicazioni. Le fonti alle fate a San Miniato resistono solo come nome, anche per le scolaresche che inventano motivi di uscita nei giorni di sole. Offrirebbe invece l’opportunità di una passeggiata bellissima a nord-est di San Miniato che riserba, come meta, un ambiente di insospettabile suggestione.

Un cielo di piccole stalattiti

Si tratta praticamente di un antro multiplo che fino a poco tempo fa fungeva da collettore delle acque che sgorgavano da una sorgente perenne. La costruzione, certamente secolare, è in qualche modo incassata nello sperone collinare; si accede al pianoro che introduce alle arcate attraverso una scala in cotto in cui i laterizi rossastri rimangono evidenti tra le toppe di muschio verdissimo; è il muschio scivoloso a rendere circospetto il passo di qualsiasi visitatore. All’interno di una di queste arcate parzialmente chiuse si poteva vedere un cielo di piccole stalattiti; sullo specchio d’acqua limpidissima grondavano in continuazione gocce d’acqua, con un arpeggio ritmato che era l’unico suono avvertibile nella silenziosa solitudine di questo luogo. 

Il luogo delle ninfe

Per noi ginnasiali era il luogo delle ninfe: presenze nascoste di figure invisibili, certamente evocate dalle “Metamorfosi” di Ovidio. Così almeno si diceva quando andavamo con i nostri libri a prepararci per gli esami di latino che a quei tempi erano immancabilmente annuali. Alcuni trovavano il posto capace di suscitare oscure paure, specialmente di notte.