08 luglio 2009

Il Teatro dello Spirito

La festa teatrale ha reso celebre questo luogo toscano al di là dei ricordi carducciani. Sono dunque dieci anni che il vento della sera – un po’ gelido – del colle porta almeno sulla Toscana, spiriti cristiani e polemici.
Salvatore Quasimodo, 1956


Un teatro diverso. Dovrebbe ormai essere chiaro a tutti che quello che si fa a San Miniato non è una Rappresentazione sacra, non è un Auto sàcramental e neppure un Mistero liturgico della cui reviviscenza si occupano altri.

Non ci è mai interessata un’operazione archeologica intesa a recuperare forme di espressioni teatrali valide in altri luoghi e in altri tempi. Personaggi che vengono dalla Bibbia, dal martirologio o dalla agiografia ufficiale non ci interessano a meno che non accada (ma quanto è difficile!) che una vicenda passata possa venire avanti e proporsi come parabola dei nostri giorni.

Teatro di riflessione. Di riflessione in quanto riflette la situazione di chi vi partecipa: di riflessione in quanto fa riflettere lo spettatore che in essa si ri-conosce. Un teatro capace di interiorizzare il dato esteriore. Questo basta ad opporlo al teatro che diletta, dove lo svago è perseguito come parametro di successo. E, tuttavia, il suo genere non si colloca necessariamente in quello del dramma ingrigito da i toni cupi e foschi della tragedia: potrebbe presentarsi nella levità di una fiaba (e sarebbe il caso che certi autori se ne rendessero conto).

Teatro dello spirito. Non sarebbe esatto chiamarlo teatro della psiche (si tratterebbe di uno psicodramma). Spirito come contrario della materia. E’ ciò che la trascende. E in questo senso può dirsi religioso. Perché va oltre la dimensione terrena e temporale. L’individuo non si correla soltanto verso il suo si-mile o verso se stesso, ma verso ciò che gli appare assoluto, infinito, verso la trascendenza, appunto. In questo tipo di teatro c’è un interlocutore in più, a pensarci bene; una presenza che sta al di sopra e al di fuori e che si manifesta come risonanza misteriosa nella corda profonda dell’anima.

Teatro popolare. Per distinguerlo dal teatro borghese; e ancora teatro dell’uomo comune, opposto al teatro del principe. Comunque, non popola-resco, come a dire spettacolo da bruscello, che si propone come spettacolo d’aia e di piazza del mercato. Vi partecipa il popolo, comprendeva nelle sue componenti la plebe e la nobiltà, il clero e il laico, il contadino e l’artigiano, lo stanziale e il forestiero. Allora teatro di ognuno, in quanto rappresenta la parabola moderna di ognuno.

Teatro dello spazio naturale. A differenza del teatro ufficiale, la cui nomenclatura parla di platea, palco, loggione, ridotto e ancora di quinte, fondali e sipari, il teatro popolare si configura come lo spazio dove comunemente s’incontra la gente: la piazza, il sagrato, l’invaso naturale e talvolta la stessa aula ecclesiale. Salva questa eccezione, si tratta di un teatro all’aperto, a cielo scoperto, dove la nomenclatura è riferita ad elementi naturali come la luna, le stelle, vento, sereno e pioggia. Ciò che accade lì entra della stagione dell’uomo, lo raggiunge nel suo tempo e nel suo spazio. Immenso nella dimensione cosmica di una realtà che si presenta in movimento, l’individuo è portato naturalmente ad interpellarsi sul senso e sulla direzione del proprio cammino. Perché scopre che le coordinate del proprio universo finiscono altrove.

Luciano Marrucci

“Noi precisammo fin dal nostro nascere
che non ci interessava il teatro
puramente devozionale e edificante
che volevamo un teatro impegnato
sui problemi e sulle inquietudini spirituali
del nostro tempo;
non ci attirava una verità,
pura quanto si vuole ma astratta;
ci affascinava invece la parabola
che si incarna
e per questo è cristiana,
una verità che non teme
di compromettersi con la storia
misurando sul concreto le sue responsabilità;
ci interessava insomma verificare
quanto nella realtà c’è ancora di cristiano,
quale sia la sete di Dio e dei valori evangelici
che ancora è dato da rintracciare
nel cuore dell’uomo e nelle sue comunità,
quali siano i segni del tempo
da qualunque parte e cultura e civiltà
essi vengano,
che possano profetizzare
una nuova stagione del cristianesimo”.
Giancarlo Ruggini

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