Come per assecondare la mia intenzione di studiarlo da vicino,
l’uomo col mantello esce di chiesa e si sofferma sul gradone di
pietra. Meglio: così posso osservarlo bene e scambiare con lui
qualche parola.
E’ un tipo sulla cinquantina. Capelli neri brizzolati di bianco;
la barba, che sale sopra le gote, si unisce coi baffi a circondare i
labbroni avvinati. Ciò che colpisce più in lui è quello sguardo
simpaticamente truce che parte da due cerchi neri neri disegnati su
due palle bianche e lucenti come porcellana; le sopracciglia,
massicce e sfrangiate, sembrano le ali di un uccellaccio. Il mantello
ha come fermagli due borchie d’ottone con le teste di due leoni che
mordono una catena dello stesso metallo. Giubba e calzoni, di velluto
ben scanalato, hanno il colore dell’antracite. Noto che, invece di
una normale cintura, porta ai fianchi una fusciacca scura; questo
particolare, insieme ai pantaloni alla zuava lo fanno sembrare un
carbonaro vestito alla garibaldina.
“Dunque…” incomincio, manifestando l’intenzione di
pigliare il gioco in mano.
“Dunque..” ripete lui, dandomi uno sguardo traverso e
accennando ad un sorriso, quanto basta per mostrarmi dei denti solidi
e ben allineati.
“Come ti chiami?”.
“Il mio nome è Burenca”. Scandisce con una certa enfasi e
ultime sillabe.
“Lo sai bene, Burenca è morto da mezzo secolo. Però ho
capito: sei uno che intende pigliare il suo posto”.
“Tu ci hai dato dentro! Ora te la fo io una domanda: A te, che
te n’importa?”.
“Io sono il pastore delle pecore ed anche dei montoni; me ne
devo occupare per forza. Mi dici cosa adoperi per… dare
quest’acquasanta alla gente?”. Ho accompagnato la domanda con il
gesto di aspergere.
“Con cosa la schizzo? Adopero un mazzettino di ramerino”.
“Proprio come Burenca!”. Allora sei riuscito a trovare il suo
libro delle benedizioni!”.
“Senza quello non avrei mai e poi mai incominciato questo
mestiere”.
“Ho capito: per te questo sarebbe un mestiere! Approfittare
della povera gente dando ad intendere che puoi guarirla da tutti i
malanni”.
“Ma lo vuoi capire o non lo vuoi capire che le persone vengono
da me senza che io le chiami? La vedi la differenza: tu le chiami in
Chiesa e non ti ci vengono. Da me ci vengono e mi portano d’ogni
cosa un po’. Io ci so fare e tu no. Tu mi invidi, tu mi invidi e
basta”.
“Sta sicuro che non mi passa neanche per l’anticamera del
cervello l’idea di rubarti il mestiere! Invece sei tu che vieni qui
per rubarmi l’acqua santa”.
“Ma se io adopro quest’acqua benedetta invece della semplice
acqua piovana, che male fo? Tu mi devi dire che male c’è!”.
Questo Burenca è un osso duro. Cerco di fargli capire che non
bisogna illudere la povera gente.
“E chi illude la povera gente? Vengono da me persone (anche la
moglie di un dottore è venuta da me) che sono in pena e ritornano
sollevate. Vengono con dei dolori che il medico non sa curare e, con
me, si sentono meglio”.
Non c’è verso: non ci si fa. Decido di lasciarlo partire senza
levargli il fiasco dell’acqua.
“Burenca, s’è fatto tardi e tu non hai il lanternino per
farti lume. Ti do la buonanotte”.
“Buonanotte anche a te! E non te la pigliare per quello che t’ho
detto. Per ritornare al casotto c’è un pò di luna: mi basta”.
E’ sparito come sparisce un gatto nero nella notte.
Non era passata una settimana dal nostro incontro, quando ho
trovato una sorpresa: attaccata al battente di casa ho trovato una
mezza nana con un biglietto firmato da Burenca.
Questo fatto, che rappresentava una specie di partecipazione agli
utili, ha prodotto in me un problema morale. Baratto tra una cosa
sacra ed una profana? Sarebbe simonia! Ma io non avevo pensato a
questo quando gli ho lasciato l’acquasanta e forse nemmeno Burenca ci ha pensato.
Come fare? Potrei consultare quelli della Curia; ma, se mi presento
con la nana, va a finire che, per tranquillizzarmi, se la mangiano
loro. Decido di consultare l’Artusi. L’ho messa in tegame con
battuto di cipolla, prezzemolo e carote, più una scorza di limone.
Al momento di versare il vino bianco ho tolto l’umido per condire
la pastasciutta. E’ venuta bona!
FINE
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